IL GIUDICE DI PACE 
 
    Nel proc. n. 2/10 R.G.  -  R.G.N.R.  1352/09  P.M.  a  carico  di
Kuffour Victoria Osei, nata a Koforidua (Ghana) il 13 marzo 1966, con
domicilio in Cornedo Vicentino (Vicenza), via Bellini n.  25,  difesa
d'ufficio dall'avv. Andrea Bertollo di Vicenza, imputato del reato di
cui all'art. 10-bis del d.lgs. n. 286/1998, perche' faceva ingresso o
comunque si tratteneva nel territorio dello Stato illegalmente. 
    Fatto accertato in Cornedo  Vicentino  (Vicenza)  il  23  ottobre
2009. 
Fatto e rilevanza della questione di costituzionalita'. 
    L'imputato  e'  stato  controllato  e  denunciato  dalla  polizia
giudiziaria per la contravvenzione di ingresso e  soggiorno  illegale
nel territorio dello stato italiano. 
    Quindi, e' stato tratto a giudizio  a  seguito  di  richiesta  di
fissazione udienza per presentazione immediata ai sensi dell'art.  20
bis del d.lgs. n. 274/2000. Applicazione  della  norma  nel  caso  di
specie imporrebbe a  questo  giudice  l'applicazione  della  sanzione
penali all'imputato e quindi senz'altro rilevante appare nel giudizio
in corso la questione  sulla  legittimita'  costituzionale  dell'art.
10-bis del d.lgs. n. 286/1998. 
Motivazione  e   non   manifesta   infondatezzadella   questione   di
costituzionalita'. 
    Il giudice di pace di Valdagno ritiene sussistano  i  presupposti
per sollevare d'ufficio la questione di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 10 bis del d.lgs.  n.  286/1998,  introdotto  dall'art.  1,
comma 16 della legge 15 luglio n. 94, il quale - introduce nel nostro
ordinamento il reato di cd «clandestinita'». 
    Questa norma, che ha  innovato  il  t.u.  immigrazione,  infatti,
inserendo una norma, la cui  rubrica  recita  «Ingresso  e  soggiorno
illegale nel territorio dello Stato» e  prevede  che,  salvo  che  il
fatto costituisca piu' grave reato, lo  straniero,  che  fa  ingresso
ovvero si trattiene nel territorio dello Stato, in  violazione  delle
disposizioni del presente testo  unico,  nonche'  di  quelle  di  cui
all'art. 1 della legge 28 maggio 2007, n. 68, e' punito con l'ammenda
da 5.000 a 10.000 euro. 
    La  fattispecie  in  esame  punisce  l'ingresso  illecito  o   la
permanenza illegale  sul  nostro  territorio  da  parte  di  soggetti
stranieri clandestini. 
    La finalita' primaria  del  Legislatore  pare  essere  quella  di
creare  un  fortissimo  deterrente  psicologico  nei   confronti   di
soggetti,  che  intendono  entrare  o  rimanere  clandestinamente  in
Italia, munendo di sanzione  penale  la  permanenza  clandestina  nel
nostro territorio da parte di stranieri. 
    L'illecito in esame si applica al  soggetto  che,  nonostante  la
mancanza del permesso di soggiorno  o  comunque  titolo  equivalente,
abbia fatto ingresso o si trovi sul territorio dello Stato. 
    Rientrano  in  tale  ipotesi   non   solo   gli   extracomunitari
clandestini entrati illegalmente o quelli gia' espulsi, ma  anche  il
comunitario allontanato dal territorio dello stato o  l'immigrato  in
genere che, a qualunque titolo, abbia fatto i scadere il permesso  di
soggiorno a tempo determinato. 
    L'illecito  in  esame  si  consuma  nel  momento  in  cui  o   il
clandestino entri illegittimamente in Italia o  nel  momento  in  cui
scada il precedente  e  valido  titolo  di  soggiorno  e  lo  stesso,
nonostante cio', si trattenga sul  nostro  territorio.  Il  fatto  e'
quindi oggettivo ed a nulla rileva la consapevolezza o meno del  reo,
trattandosi di condotta punibile a titolo di colpa, in  quanto  reato
contravvenzionale. 
    Non viene quindi punito solo un  comportamento  c.d.  attivo  del
soggetto, cioe' l'ingresso nel territorio dello  Stato  italiano,  ma
anche un semplice status, connesso al  trattenimento  nel  territorio
dello Stato, in mancanza di valido titolo giustificativo,  a  seguito
dell'entrata in vigore della norma, che trasforma un comportamento in
essere,  che  prima  di  questa  entrata  in  vigore  era  penalmente
irrilevante, in un comportamento sanzionabile. 
    La  norma  e'   percio'   applicabile   a   tutti   i   cittadini
extracomunitari illegalmente presenti nel territorio dello  Stato  al
momento della entrata in vigore della legge. 
    A seguito dell'accertamento dell'illecito in esame, il reo  viene
condannato al pagamento di una ammenda  compresa  tra  € 5.000  ed  €
10.000. 
    A tale ammenda, come si evince dal primo capoverso  del  punto  1
dell'art  10-bis  t.u.  immigrazione,  non  si  applica   l'oblazione
prevista dall'art. 162 del codice penale. 
    Appare di immediata intuizione  che  l'ammenda  nella  stragrande
maggioranza dei casi sara' difficilmente recuperabile, ferma restando
la presenza di un giudizio immediato avanti al giudice di pace. 
    Questo  nuovo  reato  trova  un  precedente   sempre   nel   t.u.
immigrazione, che all'art. 14 prevede l'ipotesi dello straniero,  che
si trattiene  illecitamente  nel  territorio  dello  Stato  italiano,
rendendosi inadempimente all'obbligo  di  lasciare  il  territorio  a
seguito di provvedimento del Questore. 
    In simile  ipotesi  il  reo  e'  esplicitamente  informato  della
normativa vigente e il trattenersi sul territorio e' palesemente  una
ipotesi piu' grave, rispetto alla nuova figura contravvenzionale (che
puo' essere commessa anche nella ignoranza della norma,  pur  se  non
rilevante e non esimente). 
    Si evidenzia che l'art. 14 prevede la pena detentiva, ma  ammette
un giustificato motivo, che il nuovo art. 10-bis, al  contrario,  non
ammette. 
    Il nuovo reato, pertanto, pur assumendo una funzione  sussidiaria
rispetto alla ipotesi piu' grave di cui all'art. 14,  e  collocandosi
in una  posizione  di  minore  gravita',  viene  punito  per  la  sua
oggettivita' senza possibilita' alcuna di giustificato motivo (al  di
fuori di quanto gia' espresso in ordine allo stato di  necessita'  ed
alla richiesta di protezione internazionale); quindi ad  una  ipotesi
meno  grave,  pertanto,  non   viene   riconosciuta   una   esimente,
esplicitamente ammessa per il reato piu' grave. 
    Al riguardo si rammenta che la Corte costituzionale (sentenze  n.
5/2004 e n. 22/2007) ha sottolineato il rilievo che la esimente  puo'
avere ai fini  della  «tenuta  costituzionale»  di  disposizioni  del
genere di quella ora introdotta. Sia durante  i  lavori  parlamentari
che successivamente alla sua promulgazione ed entrata in  vigore,  la
legge 15 luglio 2009 n. 94 e' stata oggetto di critiche e  di  severe
osservazioni,  in  particolare   con   riguardo   alle   disposizioni
riguardanti l'introduzione delle  nuove  figure  di  reato,  ritenute
incostituzionali  e  comunque  incompatibili  con  i  principi,   che
governano il nostro Paese. 
    Lo stesso Presidente della Repubblica in  sede  di  promulgazione
della norma ha rivelato di «non poter restare indifferente dinanzi  a
dubbi di irragionevolezza e di insostenibilita' che un  provvedimento
di rilevante complessita' ed evidente delicatezza solleva per  taluni
aspetti, specie sul piano giuridico.» 
    Il nuovo reato  colpisce  una  condotta  che  non  ha  una  reale
pericolosita' sociale, in quanto non lede propriamente il bene  della
sicurezza pubblica. Il reato di clandestinita' punisce  semplicemente
una condizione, uno status soggettivo che di per se' non  crea  alcun
danno o pericolo a terzi: lo straniero irregolare non viene, infatti,
punito perche' pone in essere condotte che mettono a  repentaglio  la
sicurezza di altri, ma solamente per quella che e' la sua posizione. 
    Questo reato, cosi' come e'  stato  concepito,  presenta  aspetti
analoghi   a   quello   di   mendicita',   reato   gia'    dichiarato
incostituzionale: in precedenza si  colpivano,  infatti,  coloro  che
chiedevano l'elemosina, non tanto  per  la  pericolosita'  di  questi
soggetti, ma proprio per il loro status di questuante. 
    Altro aspetto critico del reato de quo e' la rilevante differenza
con cui viene trattata la clandestinita' rispetto a tutti  gli  altri
reati che prevedono la pena dell'ammenda:  per  questi,  infatti,  e'
istituita l'oblazione, possibilita' che  permette  di  estinguere  il
reato nel caso in cui il condannato riesca a pagare almeno  un  terzo
dell'ammenda. Per il reato di clandestinita', invece, l'oblazione  e'
esplicitamente  esclusa  determinando  in  questo  modo  una   grande
ingiustizia,  in  quanto  priva   gli   immigrati   di   un   diritto
riconosciuto, all'opposto, a  tutti  gli  altri  cittadini,  violando
quindi in questo modo il principio di uguaglianza. 
    Il reato di cui si discute e' assolutamente incostituzionale,  in
quanto viola diversi articoli della nostra  Costituzione  e  principi
elevati a rango costituzionale dalla stessa Corte costituzionale. 
Parametri di incostituzionalita'. 
    1) In primis, tale reato incide sull'art. 3  della  Costituzione,
sul  principio  di  uguaglianza,   in   quanto   la   legge   punisce
indiscriminatamente  ed  automaticamente  tutti   senza   considerare
l'eventuale esistenza di  situazioni  legittimanti  la  presenza  sul
nostro  territorio.  Si  prevede,  infatti,   la   punibilita'.«dello
straniero inottemperante all'ordine di allontanamento del  questore»,
solamente quando il medesimo si trattenga nel territorio dello  Stato
oltre il termine stabilito e senza la previsione di  un  giustificato
motivo. 
    Si verifica pertanto una vera e propria discriminazione sociale. 
    Cio' che viene sanzionato, infatti, e'  solo  apparentemente  una
condotta,  perche'  il   vero   oggetto   dell'incriminazione,   come
precedentemente sottolineato, e'  la  semplice  condizione  personale
dello  straniero,  caratterizzata  dal   mancato   possesso   di   un
certificato, che permetta l'ingresso e la successiva  permanenza  nel
territorio dello Stato, condizione sociale propria di  una  categoria
di persone. 
    2)  La  norma  de  quo  contrasta  anche  con  il  principio   di
ragionevolezza, sempre sancito dall'art. 3 della Costituzione,  nelle
sue  diverse  manifestazioni  -  adeguatezza  dei  mezzi   ai   fini,
proporzionalita', rispetto sostanziale dei valori fondamentali  della
Costituzione, razionalita' finalistica - che  secondo  l'elaborazione
giurisprudenziale della Corte costituzionale  deve  essere  principio
basilare nell'esercizio dell'attivita' legislativa in materia penale. 
    La norma e', poi, irragionevole, in quanto  priva  di  fondamento
giustificativo, poiche' la  sua  sfera  applicativa  e'  destinata  a
sovrapporsi  integralmente  a  quella  dell'espulsione  quale  misura
amministrativa. 
    Il ruolo di extrema ratio che deve rivestire la  sanzione  penale
impone che  essa  sia  utilizzata,  nel  rispetto  del  principio  di
proporzionalita', solo in  mancanza  di  altri  strumenti  idonei  al
raggiungimento dello scopo. 
    L'ammenda  da  € 5.000,00   ad   €   10.000,00,   infatti,   pare
assolutamente irragionevole  e  sproporzionata,  in  quanto  viene  a
colpire prevalentemente soggetti, che si sono  avvicinati  al  nostro
paese, perche' spinti dalla  disperazione  e  quindi  gia'  a  priori
nell'impossibilita' di far  fronte  a  tale  sanzione  pecuniaria  di
natura penale. 
    Con cio' non si vuole negare che  rientri  tra  i  compiti  delle
istituzioni pubbliche  «regolare  la  materia  dell'immigrazione,  in
correlazione ai molteplici interessi pubblici da essa coinvolti ed ai
gravi problemi connessi  a  flussi  migratori  incontrollati»  (Corte
Cost., sent. n. 5 del 2004), ma nell'adempimento di tali  compiti  il
legislatore deve attenersi  alla  rigorosa  Osservanza  dei  principi
fondamentali del  sistema  penale  e,  ferma  restando  la  sfera  di
discrezionalita' che gli compete, deve  orientare  la  sua  azione  a
canoni di razionalita' finalistica 
    3) Oltre al mancato rispetto del principio  di  uguaglianza,  nel
caso della norma in esame si ha la violazione anche del principio  di
colpevolezza, dotato di rango costituzionale attraverso il  principio
di personalita' della responsabilita' penale ex art. 27 comma 1 della
Costituzione, perche' la condizione di immigrato irregolare viene  in
questo modo associata ad un comportamento  socialmente  pericoloso  a
prescindere dai singoli casi individuali. 
    Questo Giudice ritiene che l'ingresso o la presenza illegale  del
singolo straniero non rappresentano, di per se', fatti lesivi di beni
meritevoli di tutela penale, ma sono l'espressione di una  condizione
individuale, la condizione di migrante: la  relativa  incriminazione,
pertanto,  assume  un  connotato  discriminatorio  ratione   subiecti
contrastante non solo con il principio  di  eguaglianza,  ma  con  la
fondamentale garanzia costituzionale in materia penale, in base  alla
quale si puo' essere puniti solo per fatti materiali. 
    Al riguardo, si rammenta che la Corte  costituzionale  (sent.  78
del 2007) ha gia' escluso che la  condizione  di  mera  irregolarita'
dello straniero sia sintomatica di una  pericolosita'  sociale  dello
stesso, sicche' la criminalizzazione di  tale  condizione  si  rivela
anche su questo terreno priva di fondamento giustificativo. 
    Si consideri  poi  che,  come  detto,  non  si  tiene  in  alcuna
considerazione la possibilita' dell'assenza del  giustificato  motivo
quale elemento costitutivo del reato. 
    Il legislatore e' pertanto  legittimato  a  ricorrere  alla  pena
solamente  in  relazione  ad  offese  a   beni   giuridici   arrecate
colpevolmente, offese personalmente rimproverabili al proprio autore. 
    Tale principio e' inoltre strettamente  correlato  alla  funzione
generalpreventiva della pena: essendo l'obiettivo della  comminatoria
legale delle pene l'orientamento delle scelte  di  comportamento  dei
consociati, gli effetti motivanti perseguiti possono essere raggiunti
soltanto  se  il  fatto  vietato  e'  frutto  di  una  libera  scelta
dell'agente  o  e'  almeno  dallo  stesso  evitabile  con  la  dovuta
diligenza. 
    Nella  stragrande  maggioranza   dei   casi   l'ingresso   e   il
trattenimento «illegale» nel  territorio  dello  Stato  e'  l'effetto
della disperazione e della ricerca di'condizioni  migliori  di  vita,
che ogni essere  umano  ha  diritto  di  raggiungere,  senza  che  un
semplice trasferimento territoriale possa  essere  considerato  fatto
penalmente rilevante. 
    4) Nell'art. 10 bis del d.lgs. n. 286/1998 e' dato  vedere  anche
una lesione del principio di offensivita', in quanto non puo' esservi
reato senza offesa ad un bene giuridico, cioe' ad una  situazione  di
fatto o  giuridica,  offendibile  per  effetto  di  un  comportamento
dell'uomo. 
    Nessuno puo' essere punito per quello che e'  o  per  quello  che
vuole, ma solamente per i fatti commessi  che  ledano  o  pongano  in
pericolo l'integrita' di un bene giuridico. 
    La stessa Corte costituzionale  ha  attribuito  al  principio  di
offensivita' rango costituzionale come vincolo  per  il  legislatore,
sostenendo che quest'ultimo puo' reprimere con la pena soltanto fatti
offensivi di beni giuridici (C. cost., 24 luglio 1995, n. 360). 
    5) Si intravede poi una violazione del principio di  proporzione,
ricavabile  dall'art.  27  Costituzione  e  ad  anche  dall'art.   97
Costituzione, per quanto attiene al paramento del buon andamento,  in
relazione  al  comportamento  ed  all'organizzazione   degli   uffici
giudiziari, come apparato burocratico,  necessario  per  accertare  e
sanzionare questi reati, tale  principio,  infatti,  viene  leso  nel
momento in cui i vantaggi per la societa', ossia  la  prevenzione  di
fatti socialmente pericolosi, perseguiti attraverso  le  comminatorie
di pena non sono controbilanciati con i  costi  immanenti  alla  pena
stessa, in termini di sacrificio per i beni della liberta' personale,
del patrimonio, dell'onore, ecc. 
    In questi, come in altri  casi  similiari,  il  legislatore  deve
rinunciare ad attribuire rilevanza penale a quei fatti che  cagionano
a livello sociale un danno non  equivalente  a  detti  valori  e  che
possono comportare delle disfunzioni nel  sistema  di  organizzazione
della giustizia, anche in relazione al personale (Uffici  Giudiziari)
e costi, che devono poi essere impegnati, per sanzionare questi fatti
di  dubbio  disvalore  penale  e   pregiudizio   effettivo   per   la
collettivita'. Si pensi solo al fatto che l'introduzione del reato in
esame, inoltre, produrrebbe una crescita  abnorme  di  ineffettivita'
del sistema penale, gravato di centinaia  di  migliaia  di  ulteriori
processi privi di reale utilita' sociale e condannato per  cio'  alla
paralisi. Ne' questo effetto sarebbe scongiurato  dalla  attribuzione
della relativa cognizione al giudice di pace (con  alterazione  degli
attuali criteri di ripartizione  della  competenza  tra  magistratura
professionale e magistratura onoraria e snaturamento della fisionomia
di quest'ultima): da un lato perche' la paralisi non e' meno grave se
investe il settore di giurisdizione del giudice di  pace,  dall'altro
per le ricadute sul sistema complessivo delle impugnazioni,  gia'  in
grave sofferenza. 
    Senza dimenticare i costi di questi accertamenti penali, che sono
poi destinati a non portare nulla in termine di incasso delle ammende
irrogate, stante  l'insolvenza  conclamata  ed  a  priori  di  questi
soggetti, che sconsigliano anche un eventuale  recupero  coattivo  di
queste sanzioni pecuniarie. 
    Cio' posto, si  deve  ritenere  che  sia  senz'altro  conforme  a
Costituzione  solo  le  offese   sufficientemente   gravi,   arrecate
colpevolmente a beni giuridici degni di tutela, meritano  il  ricorso
alla pena. 
    Ne consegue il divieto per il legislatore di  fare  ricorso  alla
pena in relazione a tipi di fatti per i quali  la  pena  non  sia  in
grado di produrre  alcun  effetto  di  prevenzione  generale,  ma  al
contrario produca l'effetto opposto. 
    Il  principio  di  proporzione  e'  ancorato  alla  Costituzione,
rappresentando infatti il prius logico del principio di  rieducazione
del condannato sancito dall'art. 27 comma 3 della Costituzione. 
    6) Nel  caso  in  esame  viene  violato  anche  il  principio  di
sussidiarieta', in quanto la  pena  non  e'  ne'  proporzionata  alla
gravita' del fatto, ne' risulta necessaria, come ultima ratio. 
    Tale principio e' ricollegato al principio enunciato dall'art. 13
comma 1 della Costituzione, che riconosce  il  carattere  inviolabile
alla liberta' personale. 
    Dovrebbero essere estranei alla sfera  del  penalmente  rilevante
anche fatti di notevole gravita' quando  l'effetto  di  dissuadere  i
consociati dal commetterli possa essere comunque raggiunto attraverso
interventi di politica sociale  o  la  previsione  di  sanzioni  meno
invasive di quella penale. 
    La Costituzione impone al legislatore di fare della pena  un  uso
il piu' possibile limitato, solamente come  strumento  residuale,  in
assenza di altri strumenti idonei ad assicurare una  pari  tutela  al
bene giuridico. 
    Il  ricorso  alla  pena,  infatti,  si   legittima   nel   nostro
ordinamento solamente per finalita' di prevenzione generale, entro  i
limiti imposti dal principio della rieducazione del condannato. 
    Si  rammentano  al  riguardo  le  parole  espressa  dalla   Corte
costituzionale con riguardo al reato di mendicita': «Gli squilibri  e
le forti  tensioni  che  caratterizzano  le  societa'  piu'  avanzate
producono condizioni di estrema emarginazione, si' che (...)  non  si
puo'  non  cogliere  con  preoccupata  inquietudine  l'affiorare   di
tendenze, o anche soltanto  tentazioni,  volte  a  ''nascondere''  la
miseria e a considerare le persone in  condizioni  di  poverta'  come
pericolose  e  colpevoli».  Queste  parole  con  le  quali  la  Corte
costituzionale dichiaro' l'illegittimita' del reato  di  «mendicita'»
di cui all'art. 670, comma 1, cod.  pen.  (sent.  n.  519  del  1995)
offrono ancora oggi una guida per affrontare  questioni  come  quella
dell'immigrazione con  strumenti  adeguati  allo  loro  straordinaria
complessita' e rispettosi delle  garanzie  fondamentali  riconosciute
dalla Costituzione a tutte le persone. 
    7) Collegandoci a quanto da ultime esposto, entra in gioco  anche
la violazione del principio di solidarieta' sociale art. 2 e 3  comma
1 e 2 della Costituzione, poiche' l'introduzione di questa figura  di
reato determina ed induce  ad  una  condizione  di  isolamento  e  di
rifiuto da parte della societa' nei confronti dell'immigrato. 
    La norma in esame prevede l'indiscriminata illiceita' penale  del
soggiorno illegale nel territorio dello Stato dei soggetti  migranti,
i  quali  sono  solitamente  motivati  dalla  ricerca   di   migliori
condizioni  di  vita  rispetto  alla  poverta'  ed  alle  oppressioni
sofferte nei propri Paesi, e questo provoca una  variazione  radicale
del modo di pensare e di rapportarsi dei cittadini e  della  societa'
con quelle persone con grandi difficolta' di vita, in  condizioni  di
poverta',  che  necessiterebbero   di   solidarieta',   sostegno   ed
accoglienza,  e  che  invece  rischiano  di  trovarsi  di  fronte  ad
atteggiamenti duri, severi e diffidenti. 
    Vi e' il pericolo che quella societa' aperta e  solidale,  basata
sull'accoglienza, sul sostegno e  sull'emancipazione  di  coloro  che
hanno bisogno di aiuto e si trovano in situazioni svantaggiate,  poco
favorevoli, si trasformi in una societa' chiusa, pronta ad emarginare
tutto cio' che insospettisce, e di cui si diffida,  unga'societa'  in
cui si diffondo comportamenti ostili ed aggressivi nei confronti  del
«diverso». 
    E' noto che l'art. 2  della  Costituzione  riconosce  diritti  di
rango  ultra  costituzionale,   prescindendo   dalla   qualifica   di
cittadino, a favore di chiunque sia  un  essere  umano,  qualificando
tali diritti con il termine inviolabili. 
    Ebbene tra questi diritti inviolabili, che non sono nominati,  ma
sono   notoriamente   ricavabile   dalle    principali    Convenzioni
internazionali sulla salvaguardia dei  diritti  umani,  si  stagliano
quelli fondati sui principi della solidarieta' politica, economica  e
sociale, che non possono quindi essere contraddetti dalla  previsione
di un  comportamento  penalmente  sanzionabile,  che  secondo  l'art.
10-bis verrebbe a colpire prima di tutto proprio  soggetti  bisognosi
di questa solidarieta', che per tale ragione  raggiungono  le  nostre
coste, mettendo a rischio l'unica  cosa,  che  gli  resta,  cioe'  la
propria vita umana  e  che  appena  raggiungono  la  loro  ancora  di
salvezza, verrebbero per cio' solo ad essere penalmente sanzionati. 
    8) Viene chiamato in causa anche l'art. 10  cost.  in  quanto  la
configurazione come reato del soggiorno non regolare dello  straniero
nel territorio dello Stato contrasta  con  i  principi  affermati  in
materia  di  immigrazione  nel  diritto  internazionale  generalmente
riconosciuto, e con il diritto di libera circolazione e di  soggiorno
dei cittadini comunitari sancito nell'art. 18 del Trattato Istitutivo
della Comunita' europea,  venendo  percio'  a  violare  il  principio
costituzionale, secondo  cui  l'Italia  si  conforma  alle  norme  di
diritto internazionale generalmente riconosciute.